I nostrani Hell Theater sono una horror metal band che giunge al secondo capitolo discografico e lo fa con un concept album che rimarca la musicalità oscura e violenta di una band che prende spunto da un immaginario e un sound che in parte rimanda direttamente ai Death SS di album come “Black Mass” ed “Heavy Demons”. Wormholedeath punta su questa band e fa bene. Un’ora di musica è più che sufficiente per capire che gli Hell Theater non vogliono assolutamente immettere sul mercato qualcosa che non sia praticamente perfetto. Dall’immagine della band, al concept, fino ad arrivare ad una tecnica impressionante, la band prende esempio dai maestri Death SS ma si spinge oltre, in un power/thrash metal molto vario ma di base piuttosto intimidatorio.
Dodici tracce comprensive di intro, outro e ghost-track delineano un’ambientazione costruita attorno alla “femmina accabadora” della cultura sarda. Conosciuta come “colei che finisce” in quanto portatrice di morte a coloro che, per malattia o eccessiva sofferenza, ne richiedevano la presenza. La donna era raffigurata con un vestito nero e il volto coperto e donava l’eterno riposo all’ammalato attraverso il soffocamento o lo strangolamento, al termine di rituali di accompagnamento. Dopo la lugubre intro “Laughing Doll” esplode “Eyes Painted Blood”, dove la band imbastisce con violenza e maestria uno dei pezzi migliori del lotto, con la sua vena thrash e gli acuti striduli di Victor “Death” Solinas. “A Strange Death” prsegue su territori più variegati, la violenza lascia maggiormente spazio al lato più tecnico degli Hell Theater, mentre “Church of Saint Anthony” mette in atto un qualcosa che poi vedremo col proseguire dell’album, ovvero l’alternanza di momenti più pacati e altri più heavy. E proprio su questa ultima frase che insisterei per raccontarvi di questo album: la violenza è sempre ragionata molto bene, così come i pezzi con vari richiami doom o i vari intermezzi che richiamano la scena dark del passato.
Il disco in questo senso è ben rappresentato da una canzone come “Mamuthones Dance”, dove in otto minuti circa la band dà ampia dimostrazione di cosa voglia dire variare bene per non annoiare e offrire qualcosa di realmente progressivo. E’ quindi un album che ha bisogno di qualche ascolto e della massima dedizione, non tanto per assimilarne il sound, che a mio avviso appare interessante sin dai primi ascolti e molto d’impatto, ma forse occorre cercare di calarsi al meglio in un’opera che non è solo musica, ma molto di più.