Al contrario di quello che alcuni potrebbero pensare vedendo le foto di questa band, dove vengono ritratte delle belle ragazze truccate in stile molto dark, questa band non punta molto sull’immagine ma ha uno spessore musicale che in questo terzo album viene totalmente a galla, ancor più che nelle proprie releases precedenti. La Menade, band proveniente da Roma, mi ha ricordato vagamente l’evoluzione di un’altra band alternative metal nata verso la fine degli anni Novanta, ovvero i Coal Chamber. Non tanto per le similitudini musicali, che sono esigue, ma più che altro perchè anche quella band passò da un qualcosa di accostabile quasi in toto al nu metal col primo omonimo album, ad un secondo album (“Chamber Music”), dove le atomsfere gotgic/dark e le tastiere ne stravolsero quasi il sound.
Ai tempi non tutti capirono quell’esperimento, ma ad oggi posso dire che quella band, come anche le qui presenti La Menade, hanno sfruttato i primi lavori per rodarsi e per forgiare successivamente un sound del tutto particolare e personale. Lo testimoniano la moltitudine di canzoni dove la band cerca più di buttarsi sull’atmosfera cupa delle periferie metropolitane e anche il massiccio uso di synth ed effettistica che campeggia in tutto il lavoro. Insomma, La Menade cerca di graffiare con le chitarre affilate Tatiana Lassandro, ma queste riescono a creare una coltre invalicabile di oscurità grazie alle tastiere di Tania Marano.
Dopo l’inizio affidato a “Life resounds” la band si getta in un viaggio ipnotico che sa molto di pellicole partorite da Lynch o Cronenberg, o a dipinti di Warhol nelle parti più vagamente “pop”, ma anche del contemporaneo Anton Semenov nelle parti dove si scende più nei meandri dell’oscurità della mente umana. A fortificare questo alone pessimista e decadente (“Oblivion”, “Closer”), in chiusura abbiamo ancora una specie di ouverture che risucchia nel suo essere totalmente spoglia e strumentale, “Reversum”. Da avere!